La fame a Bévera
Nel ‘44 il fronte si fermò lì come nel ‘40, solo che questa volta la guerra non finiva, e non c’era verso che si spostasse. La gente non voleva fare come nel ‘40, di caricare quattro stracci e le galline su un carretto, e partire col mulo davanti e la capra dietro. Nel ‘40 quand’erano tornati avevano trovato tutti i cassetti rovesciati in terra e fèci umane nelle casseruole: perché si sa che gli italiani da soldati quando possono fare dei danni non guardano né amici né nemici. Così rimasero, con le cannonate francesi che arrivavano giorno e notte a piantarsi nelle case e quelle tedesche che fischiavano sopra la testa.
- Si decideranno bene ad avanzare, un giorno o l’altro, - dicevano, e dovevano continuare a ripeterselo da settembre ad aprile. - Si faranno un po’ sotto, ‘sti cristi di alleati.
La Val Bévera era piena di gente, contadini e anche sfollati da Ventimiglia, e s’era senza mangiare; scorte di viveri non ce n’era e la farina bisognava andarla a prendere in città. Per andare in città c’era la strada battuta dalle cannonate notte e giorno.
Ormai si viveva più nei buchi che nelle case e un giorno gli uomini del paese si riunirono in una tana grande per decidere.
- Qui, - disse quello del comitato, - bisogna fare a turno chi deve scendere a Ventimiglia a pigliare il pane.
- Bravo, - disse un altro, - così uno a uno restiamo fatti a pezzi sulla strada.
- O se no uno a uno ci pigliano i tedeschi e alé in Germania, - disse un terzo.
E un altro interloquì: - Le bestie. Chi ci mette la bestia? Chi ce l’ha ancora non la rischia. É facile che se uno va non torni né lui né la bestia né il pane.
Le bestie erano già state requisite e chi l’aveva salvata la teneva nascosta.
- Insomma, - disse quello del comitato. - Qui se non si ha pane come facciamo a vivere? C’è uno che si sente di andare a Ventimiglia con un mulo? Io in giù son ricercato, se no andrei.
Si guardò intorno: gli uomini erano seduti in terra nella tana, con gli occhi senz’espressione, e scavavano con le dita dentro il tufo.
Allora il vecchio Bisma che stava in fondo e guardava a bocca aperta senza capire niente, s’alzò e uscì dalla tana. Gli altri credettero che volesse andare a orinare perché era vecchio e ogni tanto ne aveva bisogno.
- Attenzione, Bisma, - gli gridarono dietro, - piscia al coperto.
Ma lui non si voltò.
- Per lui è come non bombardassero, - disse uno. - É sordo e non se ne accorge.
Bisma aveva più di ottant’anni e una schiena che sembrava piegata sempre sotto un carico di fascine: tutte le fascine camallate in vita sua dal bosco alla stalla. Lo chiamavano Bisma per via dei baffi che si diceva avessero somigliato a quelli di Bismarck, ai suoi tempi; adesso erano un paio di baffi bianchi, bisunti e spioventi, e sembrava stessero per cascare in terra da un momento all’altro, come tutte le parti del suo corpo. Ma niente cascava, invece, e Bisma strascicava avanti dondolando la testa e con lo sguardo senz’espressione e un po’ diffidente dei sordi.
Ricomparve all’apertura della tana.
- Iiih! - fece.
Gli altri allora videro che si portava dietro il mulo, e che ci aveva messo il basto. Il mulo di Bisma sembrava più vecchio del padrone, col collo piatto come una tavola chinato fino a terra, e una cautela nel muoversi come se le ossa sporgenti stessero per rompergli la pelle e sbucargli fuori dalle piaghe nere di mosche.
- Dove porti il mulo, Bisma? - gli chiesero.
Lui dondolava la testa, a bocca aperta. Non sentiva.
- I sacchi, - disse. - Datemeli.
- Ehi, - fecero. - Dove pretendete di arrivare, tra te e quel brocco?
- Quanti chili? - chiedeva lui. - Eh? Quanti chili?
Gli diedero i sacchi, gli spiegarono con le dita il numero dei chili, e partì. A ogni fischio di granata gli uomini dalla soglia della tana guardavano la strada e quella sbilenca figura che s’allontanava: il mulo e l’uomo a cavalcioni del basto che sembrava sempre pericolassero e stessero per cadere tutt’e due. Le cannonate picchiavano davanti, sulla strada, alzando un polverone spesso, rovinavano il cammino davanti ai cauti passi del mulo, oppure dietro le sue spalle: e Bisma nemmeno si voltava. Gli uomini tenevano il fiato a ogni colpo di partenza, a ogni sibilo. - Questo lo piglia, - dicevano. A un colpo sparì del tutto, avvolto nella polvere. Gli uomini stettero zitti. Ora, diradata la polvere avrebbero visto la strada nuda, e nemmeno i suoi resti. Invece riapparvero come fantasmi, l’uomo e il mulo, e continuarono a camminare, lemme lemme. Poi ci fu l’ultima svolta e non si poteva più seguirli. - Non ce la farà, - dissero gli uomini, e voltarono le spalle.
Ma Bisma continuava a cavalcare sulla mulattiera acciottolata. Il vecchio mulo metteva avanti gli incerti zoccoli sul cammino accidentato dalle selci e dalle frane recenti; la pelle gli si tendeva per il bruciore delle piaghe sotto il basto. Gli scoppi non lo imbizzarrivano: aveva tanto penato in vita sua che nulla poteva fargli più impressione. Marciava a muso chino, e il suo sguardo, limitato dai paraocchi neri, faceva osservazioni bellissime: lumache dal guscio rotto dagli spari che perdevano una bava iridata sulle pietre, formicai sventrati con fughe bianche e nere di formiche e uova, erbe strappate che alzavano strane radici barbute come d’alberi.
E l’uomo a cavallo del basto cercava di tenersi ritto sulle natiche magre, mentre tutte le sue povere ossa sussultavano alle asperità della strada. Ma lui era cresciuto assieme ai suoi muli e le sue idee erano poche e rassegnate come le loro: il pane della sua vita s’era sempre trovato al di là d’un cammino molto faticoso, il pane per sé e anche il pane per gli altri, oggi il pane per tutta Bévera. Il mondo, questo mondo silenzioso che lo circondava, ora sembrava tentasse di parlare anche a lui, con confusi rimbombi che giungevano fino ai suoi timpani addormentati, con strani sconvolgimenti della terra. Bisma andando vedeva ripe franare, nuvole alzarsi dai campi, e voli di sassi, lampi rossi apparire e sparire sulle colline; il mondo voleva cambiare la sua vecchia faccia e mostrare il rovescio delle cose, delle piante, della terra. E il silenzio, il terribile silenzio della sua vecchiaia, s’andava increspando di quei rimbombi lontani.
La strada davanti ai piedi del mulo sprizzò enormi scintille, le narici e la gola si riempirono di terra, una grandinata di pietrisco investì uomo e mulo di sbieco, mentre i rami di un grande olivo ruotarono per aria sopra la sua testa: pure, se non cadeva il mulo lui non sarebbe caduto. E il mulo resistette, gli zoccoli radicati nella terra crepata, i ginocchi lì lì per schiantarsi. Poi mosse piano, ancora nel polverone, e andò avanti.
La sera, su a Bévera qualcuno gridò: - Guardate! É Bisma che torna! Ce l’ha fatta!
Allora gli uomini e le donne e i bambini uscirono dalle case e dalle tane e videro all’ultima svolta il mulo che veniva avanti ancora più sbilenco sotto i sacchi, e Bisma dietro, a piedi, appeso alla coda che non si capiva se si facesse tirare o se spingesse.
Gran festa fece la gente della vallata a Bisma che tornava con il pane. Fecero la distribuzione nella grande tana, e gli abitanti passavano a uno a uno e quello del comitato dava un pane a testa. Vicino c’era Bisma che biascicava il suo sotto i pochi denti e guardava le facce di tutti.
Così Bisma andò a Ventimiglia anche l’indomani. Non c’era nessun’altra bestia che non potesse far gola ai tedeschi. E ogni giorno continuò a andar giù e a portare il pane, e ogni giorno la scampava, passava attraverso le bombe incolume: dicevano avesse fatto un patto con il diavolo.
Poi i tedeschi abbandonarono la riva destra del Bévera, fecero saltare due ponti e un pezzo di strada, misero le mine. Tempo quarantott’ore gli abitanti dovevano sgombrare il paese e la zona. Il paese lo sgombrarono ma la zona no: si rintanarono nei buchi. Ma erano isolati, presi in mezzo tra due fronti e senza via di approvvigionamento. Era la fame.
Quando si seppe che il paese era evacuato, salirono i brigata-nera. Cantavano. Uno aveva un pentolino di colore e un pennello. Scrisse sui muri: Non Passeranno, Noi Terremo Duro, L’Asse Non Cede. Intanto giravano per le stradette, mitra in spalla, e davano occhiate alle case. Cominciarono a assaggiare qualche porta a spallate. In quella apparve Bisma sul mulo. Apparve in cima a una strada in discesa, e avanzava tra le due file di case.
- Ehi, dove andate? - chiesero i brigata-nera.
Quello pareva che nemmeno li vedesse, il mulo continuava a mettere avanti passi sbilenchi.
- Ehi, diciamo a voi! - Quel vecchio macilento ed impassibile, arrampicato su quello scheletro di mulo, sembrava uno spirito uscito dalle pietre di quel paese disabitato e mezzo diroccato.
- É un sordo, - dissero.
Il vecchio s’era messo a guardarli, uno per uno. I brigata-nera scantonarono in un vicolo. Arrivarono in una piazzetta; si sentiva solo il correre dell’acqua alla fontana, e lontano il cannone.
- In quella casa mi sa che ci sia roba, - disse un brigata-nera, indicandola. Era un ragazzino con una macchia rossa sotto l’occhio. L’eco tra le case della piazza vuota gli ripeté le parole a una a una. Il ragazzino ebbe un gesto nervoso. Quello col pennello scrisse su un muro diroccato: Onore E Combattimento. Una finestra lasciata aperta sbatteva e faceva più rumore del cannone.
- Aspetta a me, - disse quello con la macchia rossa a due che spingevano una porta. Poggiò la bocca del mitra contro la serratura e sparò a raffica. La serratura tutta bruciacchiata cedette. Allora ricomparve Bisma, dalla direzione opposta a quella in cui l’avevano lasciato. Sembrava passeggiare su e giù per il paese, in cima a quel rudere di mulo.
- Aspettiamo che sia passato, - disse un brigata-nera, e si misero davanti alla porta con aria indifferente.
Roma O Morte, scrisse quello col pennello.
Il mulo traversava la piazza piano; ogni passo sembrava fosse l’ultimo. L’uomo addosso pareva si stesse per addormentare.
- Andatevene, - gridò il ragazzino con la macchia. - Il paese è evacuato.
Bisma non si voltò; sembrava intento a pilotare il mulo attraverso quella piazza vuota.
- Se v’incontriamo ancora, - insisté quello, - spariamo.
Vinceremo, scrisse quello col pennello.
Di Bisma si vedeva solo la schiena decrepita, sopra quelle gambe nere di mulo quasi ferme.
- Andiamo là, - decisero i brigata-nera, e pigliarono giù da un archivolto.
- Alé. Non perdiamo tempo. Cominciamo da questa casa.
Aprirono e quello con la macchia entrò per primo. La casa era vuota e piena d’echi. Girarono per le stanze e dopo uscirono.
- Ho voglia proprio di dar fuoco al paese, guarda un po’, - disse il macchiato.
Noi Tireremo Diritto, scrisse l’altro.
Bisma riapparve in fondo alla stradicciola. Avanzava verso di loro.
- Non farlo, - dissero i brigata-nera al macchiato che mirava.
Duce, scrisse quell’altro.
Ma il macchiato aveva schiacciato a raffica. Furono falciati insieme, uomo e mulo, ma rimasero ancora in piedi. Come se il mulo fosse caduto sulle quattro zampe, e fosse tutto d’un pezzo, con quelle sue gambe nere e sbilenche. I brigata-nera erano lì che guardavano; il macchiato aveva abbandonato il mitra per la cinghia e batteva i denti. Poi s’inchinarono insieme, uomo e mulo; sembrava stessero per fare un altro passo, invece diroccarono giù uno sopra l’altro.
Quelli del paese vennero a notte a portarli via. Bisma lo seppellirono; il mulo lo mangiarono cotto. Era carne dura ma loro avevano fame.